In agosto ho sentito, da Erbil, padre Douglas parlare al Meeting di Rimini sulla realtà in Iraq. Diceva che il genocidio dei cristiani, è un genocidio di molte persone, una strage di sentimenti, una violenza che dura nel tempo, una soppressione di diritti umani, un affronto alla giustizia, azzerata con gesti brutali, con la distribuzione di paure e l’eliminazione di persone con la platealità di una commedia tragica che gira il mondo e crea assuefazione agli assassinii in prima serata.
La realtà di Padre Douglas io la vedo ogni venerdì sera alla messa in inglese che lui celebra per gli stranieri a Erbil, è la puntata settimanale di preghiera, in lingua inglese, ci sono molte persone delle Filippine, erano qui già prima della crisi, pochi gli altri, di diverse nazionalità. Per i cristiani sfollati si celebrano messe nella loro lingua, che ha radici nell’aramaico, la lingua di Gesù, con la cerimonia che si celebra cantando continuamente. Le Messe dei cristiani Caldei e Siriaci sono strapiene e si celebrano presso i campi di loro residenza.
La celebrazione di padre Douglas sta per iniziare. Come ogni venerdi pomeriggio. Nella sua Chiesa di Ankawa. Nel campo.
Le mani si incrociano in un gesto antico e rituale. Mani che si elevano al cielo. Mani attraverso le quali le preghiere si fanno storia. Richiesta. Tormento. Dolore.
Mani costrette a portar via pochi resti di una vita brutalmente spezzata, che hanno asciugato lacrime, che ogni giorno si inventano una vita nuova. Qui nel campo di Ankawa.
Una vita fatta di piccoli gesti, che ogni giorno impone forza, forza di reagire, di lottare e non crollare.
Una vita “sospesa” tra un passato che non tornerà più ed un futuro che fa paura, mentre NOI siamo il loro presente e proviamo ad andare avanti, a ridisegnare i confini di un’esistenza drammaticamente segnata.
Ogni giorno, ogni mattina, programmiamo, studiamo, valutiamo interventi e soluzioni che possano rendere la vita nel campo, una vita migliore, per riconsegnare a queste persone una dignità espropriata.
L’asilo nido, i giochi per ragazzi, gli incontri con le madri, costruiamo “luoghi” di speranza.
Coloriamo i muri con disegni dolcissimi, di fiori ed animali. Proviamo ad insegnare ai bambini come un leone possa essere bellissimo nella sua fierezza, senza dimostrare brutalità.
Insegniamo ai ragazzi il Taekwondo. Perché un’arte marziale, dalla quale si impara a gestire sì la forza della reazione ad un agguato, insegna, più delle parole, che ci sono regole di comportamento anche in un combattimento.
Proviamo a costruire con sassi d’amore ponti di pace. Pace tra chi la guerra non l’ha mai voluta. L’ha subita. Sofferta.
E’ un impegno che va oltre le nostre forze.
Nella foto di Augusto Veneziani, medico e volontario dell’Auci:
“Il segno che vedete è una “n” sta per Nazareno un termine denigratorio per indicare i cristiani. Viene usata dai miliziani dell’ISIS per localizzare le loro case. La fuga dalla guerra ha creato circa 2 milioni di profughi interni. Sono persone comuni che hanno perso tutto. La foto l’ho scattata nella tenda/chiesa di un campo ad Irbil. Era una manifestazione di orgoglio identitario. Di desiderio di resistere.”